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CORRIERE DELLA SERA
3 novembre 2005

Il popolo non ha la toga
La giustizia ai magistrati
di VITTORIO GREVI

Due episodi analoghi, negli ultimi giorni, hanno fatto riesplodere le polemiche (puntualmente riemergenti, ogni qualche tempo, sulla base di spinte assai spesso più emotive che razionali) circa l’asserita incapacità della magistratura di adottare decisioni corrispondenti alle attese dell’opinione pubblica. In entrambe le ipotesi, la questione riguardava un cittadino straniero arrestato in flagranza dalla polizia, ma successivamente scarcerato, per l’accertata assenza dei presupposti di legge necessari a giustificare la sua permanenza in carcere. Nel primo caso, si trattava di una nomade romena accusata del tentato sequestro di un neonato, nei cui confronti il magistrato (il pm fiorentino Luca Turco) ha ritenuto l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza per tale reato. Nel secondo caso, si trattava di un giovane albanese accusato di resistenza a pubblico ufficiale dopo un tentativo di furto, nei cui confronti il magistrato (il pm veneziano Carlo Nordio) ha ritenuto sproporzionata la custodia carceraria. Di fronte a questi episodi si sono subito scatenate le proteste e le invettive, da parte di diversi esponenti politici (per lo più di provenienza leghista, ma non solo), contro quei magistrati che continuano «a non ascoltare la voce dei cittadini», ma «si comportano come farmacisti e, col bilancino, si richiamano alla rigorosa applicazione della norma». E su tutte si è levata la voce del ministro guardasigilli Castelli, volta a ricordare che «la giustizia è amministrata in nome del popolo», sicché «chi giudica deve tener presente il comune senso di giustizia avvertito dal popolo».
Ancora una volta - come si vede - siamo in piena confusione delle lingue. I nostri uomini politici (o almeno alcuni di essi, ivi compreso però il ministro della Giustizia) mostrano infatti di non aver ancora capito il significato essenziale del principio costituzionale della divisione dei poteri, in forza del quale l’amministrazione della giustizia è affidata alla magistratura, la cui funzione è quella di interpretare e di applicare le leggi. Ne consegue che, nello svolgimento di tale funzione, i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, alla quale perciò devono fare esclusivo riferimento nell’emettere le loro decisioni. Dunque senza preoccuparsi di quali possano essere (di consenso o di dissenso) le reazioni dell’opinione pubblica, ed a maggior ragione senza lasciarsi condizionare dagli spiriti del «comune senso di giustizia popolare», bensì ubbidendo unicamente ai testi di legge interpretati secondo scienza e coscienza, sulla base degli elementi probatori raccolti nel procedimento.
In realtà in un moderno Stato di diritto, qual è il nostro, la giustizia è certo amministrata «in nome del popolo» (i cui rappresentanti, in Parlamento, hanno contribuito ad approvare le leggi da applicarsi), ma non «dal popolo», che di per sé non è mai stato un giudice saggio (basti pensare alla scelta operata duemila anni fa tra Gesù e Barabba). Essa è invece amministrata da magistrati reclutati «per concorso», come tali slegati da qualunque vincolo di rappresentanza del popolo, o di sue componenti: appunto per evitare, a loro carico, influenze ed interferenze dall’esterno, incompatibili con il primato della legalità.
Non a caso, del resto, è tipico dei regimi dittatoriali (dalla Germania nazista alla Russia comunista) l’attribuzione al giudice del potere di pronunciare sentenze non secondo la legge, ma secondo un elastico criterio di conformità dei fatti al «sano sentimento» del popolo. Anche perciò non è questo, e non deve essere questo, il principio cui si ispira il nostro ordinamento.


INES TABUSSO