Racconto: Ombre Purpuree

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Squarepusher
00domenica 18 luglio 2004 18:56
Tratto da "Nyarlathotep" di Howard Phillips Lovecraft

Tutto iniziò qualche mese fa, nelle zone periferiche del Cairo. Certi le chiamano letamaio, alcuni ghetto. Centinaia di migliaia di paria, invece, le chiamano casa.
Passeggiando per le polverose viuzze dei quartieri poveri, si aveva quasi l’impressione che fossero terminazioni nervose di una grande mente onnicomprensiva, vicoli oscuri incessantemente percorsi da antichi uomini olivastri senza volto, senza età. Ma da tempo, la grande mente era materia decomposta.
Lo splendore faraonico dei millenni passati aveva lasciato solo le sue misere vestigia, ormai erose dal tempo e dall’incuria. La magnificenza degli agglomerati urbani aveva lasciato posto ad un caotico sovraffollamento di ombre senza storia, scheletri ambulanti che percorrevano vicoli sudici in cerca di cibo e riparo.
Sporadicamente, cadaveri scavati dai vermi affioravano tra gli illogici assembramenti di lerci tuguri; erano spettri di una civiltà decaduta, morti d’inedia per l’indifferenza o la malizia di coloro che, come me, dall’alto dei loro grattaceli li osservano come carne da cannone. Agnelli sacrificali per assicurare il nostro potere finanziario e politico.
Ognuno ha le proprie colpe, questo è certo, ma mai sarei disposta a dare ciò che mi appartiene per nutrire quella rivoltante massa di insetti.
Ero ancora una ragazza quando iniziai a provare una sensazione simile ad una pulsione viscerale, la vocazione all’ordine e al bello in una terra di sozzura e istinti primordiali.
Chiusa nella mia piccola oasi di pace, la mia lussuosa dimora, potevo scrutare con disgusto le masse di miseri reietti strisciare al di sotto. La loro vita trascorreva priva di senso, talmente erano attaccati alla carne, ai beni materiali.
Il mio disgusto per loro nacque quando realizzai che, al contrario di loro, io rifletto, elucubro, provo piacere nell’osservare basita un’opera pittorica. I paria vivono per saziare i loro bassi istinti, si nutrono del letame che casualmente reperiscono per strada, e soprattutto si riproducono. Come un virus, sono inarrestabili, sempre di più, sempre meno uomini, sempre più bestie.
Nella mia casa/prigione, saziavo la mia mente con le più sublimi delizie intellettuali e artistiche, vivevo circondata e racchiusa tra le alte e robuste mura del mio grattacielo, con un sicuro avvenire e un lieto passato.
Iniziò tutto senza un ben definito motivo. Sembrava che il mondo si fosse abbandonato all’Entropia, semplicemente per noia. Un’inquietante ombra iniziò ad oscurare il mondo, mettendo in evidenza i tratti più ancestrali della natura umana. Qualcosa di strano, ignoto, aveva fatto inceppare la grande macchina del tempo e ormai ogni giorno appariva rosso, trascorreva uguale a tutti gli altri: guerre, stragi, semplici ma diffusi casi di ordinaria follia.
Provavo un certo timore a pensare che l’impero economico di mio padre potesse soffrirne.
I paria apparivano sempre più numerosi, e provavo uno strano disagio ad osservare, protetta all’interno della mia limousine, i loro occhi piccoli e ferali. Da secoli la nostra famiglia viveva totalmente distaccata dall’ambiente mistico delle masse povere, immerso nella superstizione, inscindibilmente legato ai loro insensati feticci. Si muovevano in blocchi fluidi e omogenei, e sulle loro bocche riecheggiavano vaghe dicerie e arcaiche leggende, miste in una scoraggiante amalgama, ormai incomprensibile alle nostre sofisticate orecchie.
Nyarlathotep. Troppe voci avevano sussurrato questo nome con timore.

E da allora i cieli si fecero più scuri, e il mondo intero parve perdere lentamente i freni inibitori che lo imprigionavano in uno stato di pace forzata, dovuta alla necessità dei suoi abitanti di sopravvivere in gruppi sociali. Il clima di tensione era sempre più manifesto.
Ombre purpuree ammantavano il futuro dell’intero pianeta.
Come un carcere privo di secondini, in maniera sempre maggiore la capitale assumeva tratti anarchici e violenti, come un lento ritorno alle pulsioni represse per millenni durante l’evoluzione della civiltà.
Le autorità poterono fare ben poco per arginare il flusso di criminalità e destrutturazione che investì la città, anche perché le stesse forze dell’ordine parevano assumere tratti ferali e sadici nell’espletazione dei loro doveri.
Ogni giorno, il conteggio dei morti era sempre più alto, gli abusi più spregiudicati e la tensione più allarmante.
Ma, accecati dall’ingenuità e dalla superbia, noi membri delle classi più avvantaggiate reputammo questo fenomeno come un semplice tumulto nelle retrovie. Gli insetti si sterminavano a vicenda.
Avevo solo diciassette anni. Non potevo capire.
Al ritorno da un’escursione nelle dune del deserto, accompagnata dalle mie fide guardie del corpo, compresi a mie spese che l’ondata di follia che aveva distorto l’espressione affranta dei cittadini in un ghigno ferale era l’inizio di un processo molto più complesso e radicale di quanto potessi immaginare. Il mondo intero stava urlando la propria disperazione.
Notai subito che l’autista aveva deviato la sua rotta abituale di ritorno, passando in vicoli a me sconosciuti. Percepii immediatamente la bizzarria della situazione, e colsi alcuni dettagli che al momento mi sembrarono superflui, oppure mie costruzioni mentali prive di fondamento logico:
le mie guardie del corpo erano stranamente ansiose, illogicamente trepidanti e febbrili.
Viaggiando per le strade del ghetto, mi resi conto con disgusto del suo effettivo mutamento: i paria incedevano senza una meta ben definita, in gruppi compatti, aggirandosi come branchi di randagi famelici. Per sicurezza, la mia auto svoltò verso vicoli bui completamente deserti, sfrecciando a velocità eccessiva per strettissime viuzze dimenticate. Senza una ben precisata ragione, la nostra vettura si fermò in un viottolo completamente deserto. Ero così in ansia per i pericoli esterni, troppo concentrata sui reietti, per fare attenzione alle mie guardie del corpo.
Improvvisamente, un pesante pugno colpì il mio volto, stordendomi e annebbiandomi la vista. Venni trascinata di peso fuori dalla macchina, senza capire con precisione ciò che stava succedendo, ancora in agonia per la fitta di dolore al viso.
Fui gettata sul suolo polveroso, e sentii alcune sconnesse frasi isteriche provenire dalle mie guardie.
Accecata dal dolore, non riuscivo a focalizzare, ma sentii delle grosse e sgraziate mani strisciare sul mio corpo, strapparmi prima la giacchetta, e in seguito sfilarmi i pantaloni e le mutandine. Confusa e sconvolta dal panico, tentai di dimenarmi senza alcun esito, schiacciata al suolo dal peso di un individuo sudato e nerboruto. Il fiato mi mancava, lasciandomi ridotta al silenzio per respirare. La vista mi si schiarì, e vidi i suoi occhi. Gli occhi feroci di un animale, totalmente stravolti dalla furia e l’impeto.
In maniera analoga, lo sentii. O si, lo sentii, fin dentro l’anima.
Sentii il suo cazzo, che entrò in me con violenza, senza passione. La sua era pura frenesia selvaggia. Era una delle mie guardie del corpo.
Ricordo l’evento senza alcuna vergogna o inquietudine. Superato il primo impatto traumatico, seppi apprezzare la mia sventura. La tensione erotica era simile a molte mie fantasie adolescenziali. In un certo qual modo, la paura amplificava il piacere.
Tentai di non resistergli, di assecondare il suo sadismo, ma continuò a pestarmi e penetrarmi senza esitazione o pietà.
Sconvolta, dolorante e intorpidita, mi accorsi del repentino cambiamento di situazione. La bestia che mi sovrastava e opprimeva, improvvisamente, smise di compiere la sua sconcertante danza dentro il mio corpo martoriato. Nonostante la vista fosse annebbiata dalle lacrime, distinsi chiaramente un rivolo di sangue colargli dalla nuca.
Mi sforzai per mantenere l’autocontrollo, e feci forza per spostare il corpo della guardia, che mi impediva ogni movimento. Con orrore, realizzai che un branco di paria mi circondava. Il loro sguardo era di poco differente da quello del mio assalitore, ma riuscivo a cogliere in essi una certa sadica ironia. Mi osservavano, ghignando, e vidi che la maggior parte di essi impugnavano accette, falci, e attrezzi da lavoro di varia natura. I cadaveri mutilati delle mie guardie giacevano ai miei piedi.
Senza che avessi il tempo di reagire, due di loro mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono, urlante, lontano dalla scena del massacro. Con la coda dell’occhio, vidi i restanti reietti disporsi attorno alle carcasse. Uno di loro alzò al cielo una scure e produsse un acuto grido tribale, simile a quello di un predatore che afferma la sua superiorità innanzi alla preda omai morta. A questo ordine vocale, i restanti paria si avventarono sui cadaveri, ricoprendoli totalmente.
Si nutrirono di essi.
Venni trascinata per lungo tempo, attraverso un dedalo incomprensibile di oscuri viottoli, fino a giungere in una zona particolarmente caratteristica. Era il più antico settore del ghetto, i cui edifici erano stati ammassati l’uno sull’altro con il passare dei secoli. Ogni parete era erosa e pericolante, ogni angolo un ricettacolo di immondizie e lerciume.
Mi portarono alla fine di un vicolo cieco, dove i rifiuti erano più numerosi e odorosi, e un seggio era stato forgiato con l’intreccio di pattume eterogeneo. I bordi del vicolo erano brulicanti di reietti inginocchiati innanzi a questo grottesco trono. Il silenzio era assoluto, smorzato solo da sussurri incomprensibili e lo squittio incessante dei topi.
Una figura sedeva sul trono. La sua pelle era olivastra, il suo viso delicato ed elegante.
Era sbalorditiva la sua bellezza antica ed enigmatica, simile a quella delle sfingi. Pareva essere il messia di questi reietti, l’incarnazione delle loro speranze, il cui corpo sembrava essere costituito con l’essenza stessa dei loro sogni. Aveva un profilo maestoso e severo, accompagnato da una grazia innaturale, e un alone di splendente fascino lo avvolgeva, come un manto candido.
Con sconcertante sicurezza, compresi immediatamente che innanzi a me si ergeva colui il cui nome infestava i ghetti, fin dall’inizio di questa follia dilagante. In seguito giunsi alla conclusione che, con tutta probabilità, ne era la causa e l’artefice.
Nyarlathotep.
E ancora più inquietante fu la realizzazione che questi era solo un giovane ragazzino.
Alzandosi dal suo seggio, si avvicinò a me con passo solenne. I paria che mi bloccavano allentarono la presa ed andarono ad ingrossare le fila dei sudditi genuflessi ai bordi del vicolo.
Rimasi paralizzata, congelata in un’espressione stupefatta. Qualcosa nel suo profilo generale mi infondeva serenità, il suo magnetismo era divino.
Avvicinò il suo volto al mio e mi baciò teneramente. Leccò le mie ferite, e io, come incantata, sentii il dolore svanire nel nulla, come mai fosse esistito. Mi intrattenne per ore con bizzarri giochi elettrostatici e sbalorditivi esperimenti fisici, senza mai rompere con parole l’armonia creata. Dopodiché facemmo l’amore per ore, sulla terra nuda dei vicoli, ma niente di questo fu squallido o perverso. Era l’incarnazione dell’Amore e della sensibilità. Simile a fuoco liquido, Nyarlathotep era la più pura delle passioni.
E, dopo ore idilliche, le masse di paria si ritrassero nell’ombra. Nyarlathotep, voltandomi le spalle, camminò verso il suo trono e svanì, mutando il suo corpo in una nube di calabroni. Scomparse senza aver mai proferito un vocabolo.
Ancora estatica e addolcita, mi alzai e camminai lentamente verso casa, attraversando il ghetto con passo lieve.
Mi resi conto che le strade erano deserte, e gli edifici apparivano stranamente erosi e pericolanti. Una volta giunta nella piazza principale, la mia attenzione fu subito catturata da un gigantesco teleschermo pubblicitario. In esso appariva l’immagine di Nyarlathotep. La sua presenza era calda e rasserenante, e la sua voce era poesia, parole liquide; sufficiente, con il suo fluire armonioso, a dissolvere ogni inquietudine. E dagli amplificatori del teleschermo sgorgarono queste parole:
Io, Nyarlathotep....
Osservai i grattacieli. Alcuni apparivano troncati e decadenti, altri ridotti in macerie. La città era stata completamente rasa al suolo, niente più che rovine.
...desidero che ogni ordine abbandoni i suoi colori....
I resti straziati della popolazione, orrendamente mutilati e deformati da bubboni e croste violacee, erano schiacciati dai resti delle strutture crollate.
...che l’unica legge che esista sia che non esista alcuna legge....
Il cielo appariva oscurato da nubi tossiche e i terreni erano sterili e arsi dalla pioggia acida.
Realizzai che nulla era rimasto integro. Il sangue formava laghi infetti di coagulo. Persino l’aria aveva assunto il tanfo sulfureo della miseria e della disperazione.
...io ordino che l’uomo danzi febbrilmente attorno a ciò che è rimasto....
Il mondo di bellezza e agi che conoscevo ora è un mondo di rovine, soffocato dai conflitti millenari di un’intera razza. Il suo egoismo, il suo orgoglio, la sua malizia erano sfociati nel genocidio.
....il genere umano......
Sorrisi, pensando al dono che portavo in grembo. Non tutto era stato inghiottito dall’Entropia. Una piccola scintilla di speranza, avvolta da un oceano di macerie, ancora brillava debolmente.
...la cui anima è Nyarlathotep.
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