- Il vaccino americano - by Massimo Gaggi

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meulen
00venerdì 6 gennaio 2006 23:23



«La verità è che ho violato la legge e ho disonorato il Parlamento. Per questo perderò la mia libertà, la mia reputazione e la fiducia della mia famiglia». Un'autodenuncia pubblica che, nella sua brutalità, ricorda quella dei dirigenti epurati dai regimi comunisti qualche decennio fa; invece è la confessione di Randy Cunningham, deputato repubblicano della California. Veterano pluridecorato della guerra nel Vietnam, Cunningham, detto «il Duca», aveva portato nella politica l'audacia e il linguaggio netto del pilota abituato ad atterrare sulle portaerei. Ma una vicenda di corruzione (ha intascato tangenti pari a circa 2 milioni di euro) qualche settimana fa ha troncato la sua carriera e lo ha spinto a dichiarare, singhiozzando in diretta tv, di essere un fallito e un criminale, nella speranza di uno sconto sulla pesante pena detentiva che comunque lo aspetta.

Il sistema giudiziario degli Usa è severissimo nel perseguire tutti i reati (due milioni di americani, poco meno di uno ogni cento, sono in carcere). Corruzione e crimini finanziari non fanno eccezione. Regole, che percepiamo come spietate, hanno garantito, nella politica e negli affari, standard etici superiori a quelli, ad esempio, dell'Italia. Quattro anni fa lo scandalo Enron, seguito da quelli Worldcom e Tyco, ha però fatto «cadere il cielo» sul mondo della finanza. Allora la reazione venne proprio dalla politica che varò rapidamente un nuovo sistema di regole per i mercati finanziari (la legge Sarbanes-Oxley) che si è dimostrato abbastanza efficace.

Oggi, mentre l'Italia è ripiombata in un clima di scandali finanziari e politico- finanziari, l'America scopre che nemmeno i suoi vaccini fatti di pene severe l'hanno messa al riparo da una degenerazione dei rapporti tra affari e politica. Più che un caso isolato, la vicenda Cunningham è la punta di un iceberg: le prime avvisaglie sono giunte mesi fa con l'incriminazione del capo della maggioranza repubblicana al Congresso, Tom DeLay, per un finanziamento scorretto della campagna elettorale in Texas. Ora l'America è costretta a guardarsi allo specchio non solo perché DeLay, un politico tanto spregiudicato quanto coraggioso, chiede di essere processato subito, nella speranza di poter riprendere, se assolto, la guida del partito di Bush, ma anche perché ieri Jack Abramoff e altri superlobbisti che hanno fin qui dominato la scena politica di Washington si sono dichiarati colpevoli alla vigilia del procedimento fissato contro di loro. La loro promessa di collaborare con la Giustizia è considerata quasi una sentenza di condanna per numerosi parlamentari, soprattutto repubblicani, ma anche democratici. Il 19 gennaio andranno, infine, alla sbarra i capi della Enron: personaggi sempre a cavallo tra affari e politica, protagonisti del più grande scandalo finanziario della storia americana.

Forse sentiremo parlare di «Tangentopoli americana», ma il paragone tra i due Paesi non regge perché, nonostante gli scandali, l'illegalità negli Usa è pur sempre un iceberg, non un'abitudine diffusa e perché i magistrati americani, benché elettivi o di nomina politica, raramente sono considerati di parte. Ci ha provato DeLay, ricusando il suo giudice, un democratico dichiarato: il capo del tribunale, repubblicano, l'ha sostituito con un altro giudice che ha confermato quasi tutti i capi d'imputazione. E Abramoff, che fa tremare i polsi al partito di Bush, è stato «stanato» dalle indagini condotte in Congresso dal repubblicano John McCain, oltre che da quelle della magistratura.

Corriere
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